

Continua il mio viaggio nelle mafie, come continuano le mie riflessioni man mano che scorrono le pagine dei volumi di recente pubblicazione che consulto per carpirne l’evoluzione. Un’evoluzione che mi fa paura perché più silenti sono le modalità con cui le mafie si insinuano nella nostra società compromettendone la salute. Una salute che diviene sempre più precaria perché questa sorta di silenzio delle mafie non ci consente di decifrare i sintomi della malattia. Perché sono malattia le mafie, come sono malattia tutti quei settori che ne vengono colpiti e che irradiano un sistema di potere malsano capace di ledere i gangli vitali del nostro vivere civile. E più leggo, mi documento, studio, e più acquisisco la consapevolezza che ci troviamo di fronte ad un cancro sociale che non siamo in grado di riconoscere perché troppo sottili stanno divenendo le linee di confine tra il lecito e l’illecito.
Un illecito che non riguarda più soltanto le regioni meridionali ma che sempre più frequentemente interessa il Nord, le regioni settentrionali. Regioni che sono sempre state ritenute indenni dal sistema mafioso ma che sempre più sovente sono al centro di indagini e processi che mettono in risalto il forte radicamento delle mafie nel loro territorio. Mafie che si sono evolute e che, in questi territori, hanno superato il livello della semplice infiltrazione per farsi parte del tessuto economico e sociale.
Prendiamo, per esempio, la regione Emilia Romagna. Il processo “Aemilia” sta dimostrando che una mafia, la ‘ndrangheta emiliana, si è fatta sistema.
A tal proposito, scrive Giovanni Tizian (giornalista de L’Espresso): «Quando un’organizzazione mafiosa si fa sistema vuol dire che ha saputo costruire attorno alla cosca una rete di protezione estesa. Un network di personaggi insospettabili: professionisti, servitori dello Stato infedeli, politici, imprenditori, cittadini omertosi. Ma significa anche che il metodo proposto ha trovato cittadinanza in alcuni settori dell’economia e del mercato». Il processo “Aemilia”, infatti, ha messo in luce che gli appartenenti al «gruppo emiliano non si sono limitati a invadere i settori tipici di interesse della ‘ndrangheta (trasporti, edilizia, movimento-terra) ma anche a stringere rapporti con politici, istituzioni, faccendieri, forze dell’ordine e professionisti come strumento per ottenere e agevolare quello che normalmente fa ottenere lo Stato». Uno Stato che, diciamolo pure, non ha o non ha voluto trovare gli strumenti per far sì che questo sistema cada.
Credits © Catena Cancilleri
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