Dal 1861, circa 30 milioni di italiani sono emigrati all’estero in cerca di fortuna. E’ come se tutta la popolazione italiana dell’inizio del XIX secolo avesse lasciato il paese, lasciandolo vuoto. La maggior parte degli immigrati italiani andò via negli anni successivi all’Unità d’Italia, nel periodo che più tardi divenne noto come “grande emigrazione” (1876-1915). La maggior parte di loro è andata in Brasile.
Dopo due decenni in cui le principali mete erano Brasile, Argentina e Uruguay, gli Stati Uniti sono diventati la destinazione più ricercata.
Non erano solo operai ad andarsene. Le classi più povere non potevano davvero permettersi il viaggio e, per questo motivo, il maggior numero di viaggiatori era costituito da piccoli proprietari terrieri che, con i loro miseri risparmi, erano in grado di acquistare un biglietto di sola andata per il Nuovo Mondo.
L’emigrazione è stata quasi sempre programmata come una necessità temporanea, e chi se ne andava era di solito solo un componente della famiglia.
Un’importante eccezione a questa regola fu la grande emigrazione contadina di intere famiglie dal Veneto e dall’Italia meridionale verso il Brasile, soprattutto subito dopo l’abolizione della schiavitù (1888) e l’annuncio da parte del governo brasiliano di un vasto programma di colonizzazione e di benefits offerti agli immigrati.
Negli Stati Uniti, coloro che riuscivano a sopravvivere alla traversata, appena sbarcati venivano sottoposti a rigorosi controlli da parte delle autorità sanitarie. Si temeva che gli italiani portassero malattie come il tracoma (un’infezione agli occhi che può portare alla cecità). Inoltre, dopo le visite mediche, venivano anche sottoposti ad una visita psico-comportamentale. Chi non superava i controlli, che di solito duravano fino a tre giorni (in ambienti tipo prigione), veniva contrassegnato con una X sui vestiti e rispedito sulla prima nave disponibile.
Mentre In Brasile era molto più facile conquistare un posto nella nuova patria, negli Stati Uniti le difficoltà erano enormi. Per questo motivo, in Nord America, gli italiani hanno preferito organizzarsi in ghetti che si sono rapidamente trasformati in quartieri italiani dove i bambini frequentavano le scuole parrocchiali italiane, il che ha ritardato notevolmente l’apprendimento e la diffusione della lingua inglese in queste comunità.
Negli Stati Uniti, che poco prima avevano abolito la schiavitù, si diceva che gli italiani “non erano neri, ma non erano neanche bianchi“. Gli italiani erano classificati come appartenenti a una “razza inferiore” o costituenti di “un ceppo di assassini, anarchici e mafiosi“.
In un’intercettazione telefonica del 1973, il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon non poteva essere più chiaro.
Ha detto: “Non sono come noi. La differenza si nota già nel diverso odore che emanano, nel loro diverso aspetto, nel loro diverso modo di agire. La cosa peggiore è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto”.
Solo durante la seconda guerra mondiale, grazie all’arruolamento di molti italo-americani nei corpi d’armata statunitensi, l’integrazione riuscì a fare importanti e concreti passi avanti.
Forse esattamente a causa di questa integrazione c’è stata una ripresa dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti subito dopo la fine della guerra. Ma non durò a lungo poichè nella stessa Europa si era appena aperta una nuova via di emigrazione, questa volta verso i Paesi del Nord: Francia, Germania, Belgio, Inghilterra e Svizzera i più ricercati, ma di questo parleremo in un altro articolo.
Credits © Rogerio Antonio Loyola
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Dopo due lauree in Brasile presso l’Università di São Paulo ha maturato la sua esperienza professionale nel settore bancario in Brasile, Inghilterra e in Italia presso varie Banche Brasiliani. Discendente di una famiglia italiana di Parlemo e Chieti, è un appassionato della cultura e del popolo Italiano. Vive in Italia da 10 anni dove ha avuto il privilegio di conoscere la sua ex insegnante di italiano, la signora Terranova, e la sua opera.